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Ai sensi dell’articolo 1920 del Codice Civile, un contratto di assicurazione sulla vita è valido anche quando stipulato a favore di un terzo, acquistando, quest’ultimo, un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione per effetto della designazione operata dall’assicurato.
Tale atto di individuazione del terzo può avvenire, in particolare, o attraverso il contratto di assicurazione stesso, o con successiva dichiarazione scritta comunicata all’assicuratore oppure per testamento e, in base alla lettera del comma 2 dell’articolo 1920 c.c., è efficace anche quando il beneficiario è determinato solo per relationem, ossia in via generica.
Soffermando l’analisi sull’individuazione del terzo per mezzo del contratto, si rileva che spesso nella prassi dei contratti di assicurazione sulla vita “caso morte”, sono utilizzate clausole che designano il terzo beneficiario attraverso un generico richiamo agli “eredi testamentari dell’assicurato” o, in mancanza di testamento, ai suoi “eredi legittimi“.
L’interpretazione di tali clausole è stata oggetto di un revirement da parte della Corte di Cassazione, che, modificando il proprio tradizionale orientamento, ha creato un doppio filone interpretativo.
Tradizionalmente, infatti, la Suprema Corte ha affermato che la designazione degli eredi legittimi per mezzo di un contratto di assicurazione sulla vita a favore di terzi rappresenta una modalità per individuare i beneficiari fra i quali dividere l’indennità prevista nel contratto stesso, restando esclusa l’applicabilità delle norme sulla successione ereditaria.
Tale orientamento affonda le proprie origini nella pronuncia della Corte che afferma come “nel contratto di assicurazione per il caso di morte, il beneficiario designato è titolare di un diritto proprio, derivante dal contratto, alla prestazione assicurativa. Qualora il contratto preveda che l’indennizzo debba essere corrisposto agli eredi legittimi o testamentari, tale designazione concreta una mera indicazione del criterio per la individuazione dei beneficiari, i quali sono coloro che rivestono, al momento della morte del contraente, la qualità di chiamati all’eredità, senza che rilevi la (successiva) rinunzia o accettazione dell’eredità da parte degli stessi” (cfr. Cass. Civ. n. 4484 del 1994).
Alla pronuncia appena esposta ha poi fatto seguito la sentenza n. 9388 del 1994 in cui si ribadisce che “quando in un contratto di assicurazione contro gli infortuni, compreso l’evento morte, sia stato previsto, fin dall’origine, che l’indennità venga liquidata ai beneficiari designati o, in difetto, agli eredi, tale clausola va intesa nel senso che il meccanismo sussidiario di designazione del beneficiario è idoneo a far acquistare agli eredi i diritti nascenti dal contratto stipulato a loro favore (art. 1920 c.c., commi 2 e 3). Mentre l’individuazione dei beneficiari/eredi va effettuata attraverso l’accertamento della qualità di erede secondo i modi tipici di delazione dell’eredità (testamentaria o legittima: art. 475 c.c., comma 1, e art. 565 c.c.) e le quote tra gli eredi, in mancanza di uno specifico criterio di ripartizione, devono presumersi uguali, essendo contrattuale la fonte regolatrice del rapporto e non applicandosi, quindi, la disciplina codicistica in materia di successione con le relative quote”.
Punto di arrivo dell’orientamento sin qui esposto è rappresentato dalla pronuncia della Cassazione dove si afferma che “poichè nel contratto di assicurazione per il caso di morte il beneficiario designato acquista, ai sensi dell’art. 1921 c.c., un diritto proprio derivante dal contratto alla prestazione assicurativa (salvi gli effetti dell’eventuale revoca della designazione ex art. 1921 c.c.), l’eventuale designazione dei terzi beneficiari con la categoria degli eredi legittimi o testamentari non vale ad assoggettare il rapporto alle regole della successione ereditaria, atteso che (come già in precedenza affermato dalla Corte) tale designazione concreta una mera indicazione del criterio per la individuazione dei beneficiari, i quali sono coloro che rivestono, al momento della morte del contraente, la qualità di chiamati all’eredità, senza che rilevi la (successiva) rinunzia o accettazione dell’eredità da parte degli stessi” (cfr. Cass. Civ. n. 6531 del 2006).
Dalle sentenze richiamate, emerge come l’interpretazione dominante della Cassazione delle clausole sopra descritte sia nel senso che esse non solo consentono di designare gli eredi, testamentari o legittimi, quali beneficiari, ma svolga anche la funzione di parametro per stabilire quale posizione abbia l’erede nella ripartizione dell’eredità.
Quanto sin qui esposto muta radicalmente nel 2015, quando la Corte, con la sentenza 19210, afferma espressamente di voler procedere ad un “superamento totale” del proprio orientamento perché ritenuto non più appropriato in materia di polizze che prevedono clausole di designazione degli eredi quali beneficiari del contratto di assicurazione sulla vita.
I giudici approdano a tale conclusione muovendo dall’applicazione dei criteri ermeneutici della materia contrattuale e, nello specifico, dall’esegesi letterale della parola “erede”, termine che, a detta della Corte, non può che implicare un riferimento non solo al modo in cui tale qualità è stata acquisita (e, quindi, alla fonte della successione), ma anche alla dimensione di tale acquisizione, ossia al valore della posizione ereditaria secondo quella fonte.
In altri termini, secondo la Cassazione, definire qualcuno quale “erede” significa non solo designarlo come tale ma anche determinare in che misura lo sia, dal momento che il carattere polisenso dell’espressione letterale esclude che il riferimento generico agli eredi come beneficiari per il caso di morte dello stipulante una polizza assicurativa sulla vita possa intendersi di per sé significativo dell’individuazione della qualità e non anche della misura della posizione ereditaria.
Sempre secondo la Corte, poi, è applicabile il criterio dell’interpretazione secondo la comune volontà delle parti di cui all’art.1362 c.c., in base al quale è sufficiente interrogarsi su che cosa comunemente si intende per erede ab intestato e per erede testamentario. In particolare, soffermandosi sul fatto che quando lo stipulante e la società assicuratrice prevedono, in caso di morte dello stipulante, come beneficiari gli eredi legittimi in mancanza di eredi testamentari, la comune intenzione delle parti non può che essere quella di indicare la misura in cui la successione (secondo l’uno o l’altro titolo) si verificherà.
Infatti, dal punto di vista dello stipulante, premesso che egli può aver già fatto testamento e, dunque, ripartito fra gli eredi designati la sua eredità, oppure, non avendolo fatto, è palese che l’intenzione di attribuire il beneficio a chi sarà erede per il caso di sua morte, tanto nel primo caso quanto nel secondo, non può che riferirsi alla misura della chiamata disposta o da disporsi. Oppure, nel primo caso, a quella emergente da un futuro nuovo testamento o dall’eventuale revoca di quello esistente o con sostituzione con altro o senza farne un altro e quindi dalla misura della chiamata secondo la successione legittima. Dal punto di vista dello stipulante, qualora egli non avesse fatto testamento, la previsione della attribuzione agli eredi testamentari o legittimi senza la previsione dell’egualitarismo si presta solo ad esprimere l’intenzione di un’attribuzione proporzionata alla misura in cui ciascuno dei sui futuri eredi sarà tale.
Oltre al criterio dell’interpretazione letterale e quello della comune volontà delle parti, la Corte applica anche il criterio della c.d. interpretazione ideologica, per mezzo del quale si giustifica la ricostruzione del significato delle clausole in discorso nel senso che lo scopo perseguito dalle parti è conforme alla natura dell’assicurazione sulla vita “caso morte”, ossia quello di attribuire il beneficio nello stesso modo in cui risulterà regolata la sua successione.
A conclusione del proprio excursus, i giudici affermano che qualora ci si proponga di intendere le dette clausole in modo difforme dal nuovo orientamento, si dovrà giungere alla conclusione dell’assoluta incomprensibilità di un significato che non sia quello del rifermento alla devoluzione ereditaria, sia quanto all’individuazione degli eredi sia quanto alla misura della loro successione.
Infine, la Corte conclude che è sul piano della stessa volontà contrattuale che il pur generico riferimento agli eredi testamentari o legittimi, nell’intenzione di chi stipula, vuole individuare non solo il beneficiario nella sua qualità di erede in senso generico, bensì anche nel valore che la posizione assume, o per testamento o per legge, all’interno della successione. Pensare che la genericità del riferimento agli eredi sottenda che l’indennizzo dovrà essere attribuito a favore loro per parti eguali è una forzatura, che fa violenza al criterio di esegesi letterale, a quello teleologico ed in definitiva al buon senso dell’uomo comune.
Pertanto, l’art. 1920 c.c., comma 2, nell’attribuire al terzo erede un diritto proprio, pone un principio che riguarda il rapporto contrattuale fra l’assicuratore e il terzo, ma che non giustifica la totale pretermissione della stessa volontà contrattuale ricostruita letteralmente e telelogicamente come prospettato nella sentenza 19210/2015. E’ proprio secondo il tenore del contratto e, quindi, in forza di contratto che il destinatario è individuato sia con riferimento alla devoluzione ereditaria che alla sua misura.
In definitiva si può quindi affermare che la Cassazione ha inaugurato un nuovo filone giurisprudenziale secondo cui la locuzione “eredi legittimi o testamentari” va interpretata nel senso che le parti hanno voluto non solo individuare, con riferimento alle concrete modalità successorie, i destinatari dei diritti nascenti dal negozio, ma anche determinare l’attribuzione dell’indennizzo in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto, atteso che, in assenza di diverse specificazioni, lo scopo perseguito dallo stipulante è, conformemente alla natura del contratto, quello di assegnare il beneficio nella stessa misura regolata dalla successione.